Fuřvaje

Principali regole per la lettura del piemontese

ë – si legge come la e muta francese – es. fëtta

ò – si legge o – es. òm

o – si legge u – es. boton – povřon

u – si legge come in francese – es. dur, mur

eu – si legge come in francese – es. feu, bleu

ř – è la tipica r rotonda che si parla nel Piemonte sud-orientale – es. povřon

Domje ‘ř bleu – Diamogli il blu

Chissà se un giovane, nato in città e vissuto in un condominio con riscaldamento centralizzato, sentendo dire: “cariesse ‘d bòsch verd” (caricarsi di legna verde) penserà all’inidoneità della legna verde a riscaldare un ambiente, oppure, più istintivamente, cercherà un eventuale recondito significato nel colore verde?  Questo non è altro che un detto nato dalle difficoltà quotidiane dei nostri vecchi e poi utilizzato in senso lato, nella parlata corrente, per significare l’inutilità di un acquisto.

A proposito di vecchi, è così che ci piace chiamare i nostri anziani. Potrebbe sembrare poco rispettoso a chi è abituato agli eufemismi di maniera, ma nel mondo contadino il vej non è solo l’anziano con i malanni della sua stagione, bensì il Vecchio a cui si deve tutto il rispetto per l’età e per la saggezza. Quando diciamo: “ij mè vej” (i miei vecchi) intendiamo parlare degli anziani famigliari: genitori e nonni. In piemontese non esiste il termine per indicare gli antenati, se non la costruzione di parole: “ij vej dij mè vej” (i vecchi dei miei vecchi).

Il temperamento riservato della gente piemontese, unito all’indispensabile priorità di industriarsi per sbarcare il lunario in un’economia povera, non ha affatto contribuito a dotare il lessico famigliare di espressioni ricercate o di particolare raffinatezza, quasi che fossero leziosità superflue. Nostro nonno non poté mai dire alla nonna: “ti amo”, perché non esiste il corrispondente verbo piemontese. L’unica espressione possibile, ma certamente di contenuto più pieno e concreto, è: “ët veuj ben” (ti voglio bene).

 Il linguaggio schietto chiama con il loro nome le parti del corpo e le funzioni fisiologiche, le malattie e i difetti fisici senza perifrasi inutili, rendendo, a volte, il parlare crudo e apparentemente rozzo. Ma tant’è, questo è il parlare dei nostri vecchi, che ritornerà spesso in questa rubrica e che accoglieremo come la lingua con la quale hanno comunicato i nostri antenati.

Il lessico, infarcito di locuzioni idiomatiche e proverbi, trae origine da azioni, vicende e circostanze che hanno fatto parte della vita di tutti i giorni, la cui conoscenza ci offre uno spaccato di una società che solo la generazione più anziana, oggi vivente, ha ancora conosciuto.

Ora proponiamo un modo di dire ancora molto in uso: “I ř’heu daje ‘ř bleu” (gli ho dato il blu.)

Dé ‘ř bleu (dare il blu), viene da noi usato generalmente in senso disdegnoso, quasi tracotante, e si applica alla volontà di troncare nettamente con il passato o con una persona, senza se e senza ma. Però sono diverse le interpretazioni che vengono date, e che vanno anche a mutare il significato del detto piemontese. Una prima interpretazione ne fa risalire l’origine al periodo post-napoleonico, quando, in fase di restaurazione, si decise di cancellare ogni insegna o decorazione relativa all’occupazione francese, affinché venisse definitivamente dimenticata. Pertanto tutto venne ricoperto con generose mani di vernice di colore blu Savoja. Questa versione, a nostro giudizio, pare quella più affine all’uso che noi facciamo di tale modo di dire. Una seconda interpretazione nasce nell’ambiente delle arti meccaniche e trae spunto dalla consuetudine di verniciare di blu i pezzi da rettificare, affinché ne fossero evidenziati i difetti. Al termine dell’operazione, una nuova verniciatura di blu sanciva il definitivo “licenziamento” del pezzo per la consegna al committente. Una terza interpretazione fa riferimento all’usanza delle massaie di ravvivare e nobilitare la biancheria appena lavata, immergendola in acqua azzurrata con la classica pallina di asur. Questa era l’azione che segnava il compimento delle operazioni di lavaggio prima della stiratura.

Noi, per l’occasione, prendiamo per buona la seconda interpretazione e diamo il blu al pezzo per consegnarlo in lettura.

Arvëdse, nèh, e fevřa bon-a! (arrivederci e auguri di ogni bene). 

2 commenti

2 pensieri su “Fuřvaje

  1. Franca

    Oggi ho letto per la prima volta “furvaje” e mi è piaciuto moltissimo!!!! grazie all’anonimo autore ( spero che si svelerà…), continua con altre furvaje!!!!!

  2. Antonella

    E’ interessantissimo andare a scoprire il significato delle parole e i modi di dire piemontesi!!!Grazie a chi rende possibilie questa scoperta!

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