Ciuto e mosca!

Quante volte è successo di essere zittiti o di zittire qualcuno per necessità o per il desiderio di imporre il proprio volere!

“Ciuto” è l’imperativo che, nel lessico famigliare, interviene ad intimare il silenzio al bambino chiassoso, alla moglie ciarliera durante il telegiornale, al coinquilino troppo vivace nelle ore dell’altrui riposo. È un vocabolo breve, efficace fin dal pronunciamento della prima sillaba, che potremmo dire onomatopeica, con un suono affine al risoluto “ssst…”, accompagnato dal dito indice appoggiato alle labbra, che ricorda momenti dell’infanzia, quando la catechista ci sorprendeva a chiacchierare durante la predica.

C’è poi l’espressione più completa: “ciuto e mosca”,pronunciata con tono sbrigativo, per accentuare la propria volontà di ottenere un silenzio senza obiezioni. Mentre è chiara la funzione del termine “ciuto” e la sua origine dal francese “chut”, non parrebbe aver senso la parola “mosca” se non si considerasse un’altra espressione collegata al silenzio e cioè: “non voler sentire una mosca volare”. È altresì interessante l’ipotesi del Dal Pozzo (Glossario etimologico piemontese – 1888) secondo il quale l’ordine: “mosca”  deriverebbe dall’intimazione: moltschat!” (silenzio!)  che i comandanti boemi, a Custoza, impartivano ai soldati affinché potessero udire i loro comandi ed anche perché il troppo sbraitare sfiancava i combattenti.

Tornando all’ordinarietà dei rapporti umani, ben più severe sono le conseguenze sociali quando il comando diventa arrogante, costrittivo e sinonimo di prevaricazione.

 Tutti hanno sentito raccontare che le nostre nonne, il giorno del loro matrimonio, hanno ricevuto dalla suocera il cassù (mestolo) simbolo, alla stregua di uno scettro, del governo della casa. Sappiamo pure che, nella realtà, trattandosi di famiglia patriarcale (ma talvolta era matriarcale a tutti gli effetti), finché vivevano la suocera e le cognate nubili, alla nuora non era permesso esercitare questa prerogativa. Anzi, sovente doveva sottostare ai loro voleri e dì sempře ch’a ř’é cheuta (dire sempre che è cotta – dare loro ragione in ogni modo) senza discutere. Non a caso è nato il detto: “Ëř Madòne i stan ben mach ant ij quadř” (Le Madonne – anche la suocera si chiama madòna – vanno bene solo nei quadri).

Succedeva pure che vere o presunte debolezze del marito portassero la moglie a soddisfare un’innata manìa comandòiřa fino a condizionarlo nelle sue amicizie all’osteria. Da parte degli amici nascevano scherni e battute a danno del pover’uomo, del quale si diceva che la moglie lo teneva tacà curt (legato a corda corta) e a-j fava voghe ‘ř foin (gli faceva vedere i sorci verdi).

Una metafora rappresentativa dello stato di costrizione era il “topo sotto la scodella”, originata dall’osservazione di un metodo semplice per la cattura dei piccoli roditori. Si capovolgeva una scodella, a mo’ di cupola, e la si teneva sollevata in un punto, appoggiandone il bordo su una noce alla quale era stata rotta una parte di guscio mettendo in evidenza il gheriglio. La porzione rotta veniva rivolta verso l’interno per invitare il topo a recarsi da quella parte per svolgere più agevolmente il suo “lavoro”. Questo, addentata la noce, la tirava a sé, causando la caduta della scodella, che diventava una trappola inesorabile, alla totale mercé dell’uomo. In questa condizione veniva immaginato il povero marito, che si diceva vivesse in continua soggezione come o rat sota řa scoela. Era facile immaginare quanto fosse ovvia, per il malcapitato, l’obbedienza assoluta, imparata a proprie spese, tanto da “sté ciuto” senza neppure attendere il comando.

Gli avvenimenti di cui è ricca la storia del mondo ci offrono un’infinità di esempi di prevaricazione da parte di certi pijte varda (persone di cui diffidare) che, per posizione sociale, avendo ëř cotel da řa part dëř man-i, si trovano ad essere pì fòrt che řa giustissia. Si sprecano i detti popolari nati intorno a questa tematica. C’è chi, dopo aver agito senza alcun controllo, o ř’ha ‘ř corpèt ‘d vorèjte fè chërde che Nosgnoř a ř’é mòrt ‘d fřed (ha la faccia tosta di volerti far credere che il Signore è morto di freddo) e cerca poi di correre ai ripari gavand ‘ř castagne dař feu con ř piòte dj’atři (togliendo le castagne dal fuoco con le zampe altrui). Al malcapitato torna allora in mente la saggezza del nonno che diceva: trist col rat ch’o ř’ha mach an pertus (sventurato quel topo che ha una sola via d’uscita) e in certe circostanze l’unica via d’uscita è “ciuto e mosca”. 

Ben, domje ‘n taj e fomřa nen pì gřòssa che lon ch’a ř’é. Ancordevne mach che sòd e amicissia i-j rompo ‘ř còl a řa giustissia.  Ma sté ardì e dësmentié mai che a j’òm toca deje řa tařa ‘d lon ch’i son e ‘ř còse toca pijeje për lon ch’i vařo. (Bene, chiudiamo qui e non facciamola più grave di quel che è. Ricordate che soldi e amicizia rompono il collo alla giustizia. Ma non abbattetevi e non dimenticate mai che gli uomini bisogna considerarli per quel che sono e le cose per quel che valgono).

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