Tut o ven a taj, fin-a ř’onge a plé ř’aj

Tut o ven a taj, fin-a ř’onge a plé ř’aj

Tutto è utile, anche le unghie per pelare l’aglio

Nulla veniva sprecato nella società agreste. Il risparmio, l’attenzione allo spreco, il rifiuto del superfluo erano alla base della filosofia di vita contadina. Ogni atto quotidiano poteva offrire lo spunto per ribadire il concetto di sobrietà, frugalità, parsimonia. Mòrd gřòss ant ëř pan e cit ant řa pitansa (mordi grosso nel pane e piccolo nella pietanza) si raccomandava ai bambini. Ma spesso la raccomandazione era superflua perché il rapporto tra il pane e il companatico a disposizione era tale da non permettere alternative.

L’ambizione di ogni genitore era di poter vivere fasend feu ‘d sò bòsch (facendo fuoco con la propria legna) e tirare su una famiglia a ř’onoř dëř mond (all’onor del mondo). Purtroppo molto spesso i mancava disneuv sòd pëř fé řa liřa (mancavano 19 soldi per fare una lira – N.B. la lira era composta da 20 soldi) e nelle famiglie poteva succedere di nen avèj manca ‘n sòd da fé balé ‘n bòrgno (non aver un soldo per far ballare un cieco) e ‘d tiřeje lustře (espressione di origine incerta che evoca, secondo alcuni, una condizione di vita tesa a superare le difficoltà, mentre altre interpretazioni fanno riferimento agli abiti lisi e lucidi per l’uso). C’era chi faceva fatica a buté ‘nsem o disné con řa sin-a (combinare il pranzo con la cena, cioè riuscire a garantirsi entrambi i pasti). La spinta al risparmio era ispirata al detto: tuti ij pòch i fan přo (la somma di ogni poca o piccola cosa dà il totale necessario).

Purtroppo la maggior parte delle famiglie a ř’ava nen o lard da deje ař gat (non aveva lardo da dare al gatto, nel senso che non poteva permettersi di scialacquare). Sgaiřé ij sòd (sprecare i soldi) o sgaiřé ‘ř pan (sprecare il pane) era un tabù che i nostri vecchi consideravano inespugnabile, pena l’ingloriosa fine di trovarsi plà pèid in rat (pelato come un topo, ridotto al lastrico), di vedere i propri affari andare an ařia patařia (finire male – l’aggettivo patařia, di nessun significato, è puramente funzionale alla rima) e, nella peggiore delle ipotesi, essere costretti ad andé a j’uss (andare agli usci, cioè andare a chiedere l’elemosina casa per casa), come facevano le lingeře (mendicanti) fino agli anni 50 del secolo scorso. A questo proposito è doveroso chiarire che la parola legeřa o lingeřa, un tempo non aveva il significato dispregiativo che le attribuiamo oggi, ma stava semplicemente ad indicare una persona povera, di poco peso sociale.

Arvëdse a n’atřa vòta e pijeve varda dař magon (arrivederci alla prossima e state alla larga dalle afflizioni).

N.B. – Una breve riflessione sul termine magon. Consultando il dizionario “Ël neuv Gribàud” (Ed. 1996), apprendiamo che tale parola, come parecchi altri vocaboli piemontesi, ha origine dall’idioma germanico, qui giunto con le invasioni. Il vocabolo tedesco “magen” si traduce nell’italiano “stomaco” e sappiamo bene qual è la correlazione tra il magon elo stomaco.

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